
L’albero ricorda la mano che lo ha innestato?
Mi trovo nel frutteto di Gregor. Mentre il cielo coperto annuncia il richiamo dell’autunno in questa giornata di metà ottobre, sono impaziente di mettermi al lavoro. Con una macchina appesa alla spalla, mi faccio strada nella topografia della collina per occuparmi di ogni albero. Di tanto in tanto, a noi che siamo a terra viene concesso un raro raggio di sole, che illumina la chioma e rende abbastanza facile individuare ciò che cerco: frutti sinuosi, vibranti e maturi, ancora attaccati agli alberi. Sono qui per raccogliere la loro immagine.
Ci sono molti modi per inquadrare il paesaggio artificiale del frutteto. Mentre mi posiziono per visualizzare il mio soggetto da diverse prospettive, mi chiedo come raccontare ciò che vedo: l’intreccio tra persone e piante corporeizzato in ogni frutto. A prima vista, questo giardino e i suoi frutti possono sembrare un’iniziativa esclusivamente umana. Eppure, in un momento di allucinata lucidità, rinuncio a questa impressione e mi chiedo: come hanno fatto questi alberi a persuadermi a venire qui per documentare la loro arte, colorata e dolce? Tra un’abbondanza morbida e matura, comincio a comprendere la grandezza del loro ruolo silenzioso in questa fertile impresa.
L’albero ricorda la mano che lo ha innestato? (1) Se lo facesse, di certo non ricorderebbe la mia. Anche se sono venuto qui per lavorare con queste piante, il mio compito oggi è immateriale. Le mie mani manipoleranno la conoscenza, non il concime. Mentre cerco e scatto tra il fogliame, un altro pensiero inatteso mi attraversa la mente: è questa una forma insolita di relazione tra noi - umani e vegetali? Mi rendo conto che lo scopo della mia “caccia” è piuttosto bizzarro: non sono interessato a questi frutti per la loro polpa succosa, che oggi mi asterrò dal mordere; sono alla ricerca delle storie che potrebbero raccontare, per poterle raccontare ad altri. Ciò che verrà elaborato dalle cose che raccolgo qui non può essere assaggiato con la lingua, ma deve essere consumato dagli occhi e dalle orecchie. Il mio ruolo in questo momento è stranamente voyeuristico, mentre cerco di cogliere e raccogliere il senso allettante di questa rigogliosa materialità.
Intorno a me si dispongono varietà locali di alberi da frutto. Questa oasi verde crea un netto contrasto con l’ambiente circostante. Oltre la recinzione, i vigneti dei vicini coprono un terreno arido a perdita d’occhio. Proprio mentre penso di riposare all’ombra, mi rendo conto che c’è voluto un certo sforzo perché le cose siano come sono ora. Fatica non solo di questi alberi e del loro giardiniere, ma di un’intera genealogia di piante e persone che hanno coltivato questa terra. Nel corso di un tempo sconosciuto, ogni generazione ha selezionato i propri campioni, innestato i propri alberi, concimato la terra e sognato il raccolto. Nel frattempo, gli alberi hanno lavorato con la stessa instancabile dedizione. Foglie illuminate hanno morso il sole cocente, mentre radici oscure sorseggiavano con diligenza le fresche profondità del sottosuolo. Se i contadini hanno fantasticato sui frutti, cosa hanno sognato i boschi?
